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Papà Trauma e Mamma Ossessione: conoscere il proprio mito per costruirne nuove versioni

  • 27 ott 2020
  • Tempo di lettura: 2 min

“Capita, insomma, che ‘sta vita ci metta a tu per tu con qualcuno di violento, qualcuno per cui, anche volendo non avremmo mai potuto essere preparati. Chi è, costui? […] Costui è proprio lui: è Papà Trauma. Si presenta pericoloso, enorme, senza remore, senza pietà. Ma diamogli un paio d’anni e diventerà il nostro più prezioso consigliere. Il rifugio più sicuro […], l’unico marchio di garanzia della nostra identità. […] Quando ce l’avrà fatta e ci sentirà davvero figli suoi, […] gli arriverà in soccorso Lei. Mamma Ossessione. Sbatterà i suoi occhioni lucidi di comprensione, ci inviterà a riposare il capo fra le sue tette immense. […] Così, coccolati fra quelle tette, sorvegliati dalla grandiosità di Papà Trauma, ecco che abbiamo finalmente il nostro mito. Una cameretta […], un posto morbido, al calduccio, protetto dal nostro trauma e garantito dalla nostra ossessione. […] Davvero vogliamo essere schiavi del nostro maledetto mito, invece di essere noi a sgamarlo per poi però evadere?” […] “Mi sa che non possiamo evadere dal mito di noi. Possiamo fare di più, forse: possiamo tradirlo. Senza però rinnegarlo […]. Possiamo accettare che non esiste una sola versione di quel mito. Ne esistono moltissime.” (L’Isola dell’abbandono, Chiara Gamberale)


La protagonista del testo, Arianna, illustratrice di favole e fumetti per bambini alle prese con la maternità, da sempre fa i conti con il proprio trauma-mito: perdere chi ama ed esserne abbandonata. Così, per sette lunghi anni, rimane legata a Stefano, un uomo imprevedibile che, “scappando sempre, non le aveva mai potuto dare la possibilità di credere davvero in lui” e che, proprio per questo, le rendeva inconsapevolmente possibile rifugiarsi nel proprio mito e scongiurare l’abbandono temuto – “d’altronde, se avesse scelto un uomo che non scappava mai, allora sì che l’abbandono avrebbe potuto essere tremendo”. Arianna, come ciascuno, porta con sé, nella propria storia, bisogni, timori, paure, desideri: il bisogno di sentirsi al sicuro, il timore di essere abbandonati, la paura di non essere abbastanza, il bisogno di avere accanto qualcuno che ci faccia sentire abbastanza, il desiderio di sentirsi amati.

Bisogni, timori, paure, desideri, comuni all’animo umano. Tuttavia, in alcune circostanze, questi ingredienti familiari ad ognuno di noi risultano, in noi, talmente fondanti, radicali e profondi da guidarci, lungo le nostre storie, inconsapevolmente e curiosamente, proprio lì dove vorremmo poter non essere: legati a doppio filo a ciò che più temiamo – così come succede ad Arianna, legata a doppio filo ad un uomo che non può che abbandonarla. Nel testo, Arianna può scoprire e dare un nome al proprio mito e, grazie ad un lungo viaggio, tra dialoghi interni ed esterni, attraverso la sua Naxos, la maternità e la stanza di terapia, può inventare nuove lenti con cui guardare al medesimo mito, dandovi nuovi significati e costruendone, così, nuove versioni.


La psicoterapia può venirci in aiuto proprio in questo processo di (ri)conoscimento e di (ri)scoperta di Sé e degli intrecci di fili che, in modo unico e specifico, ci hanno portati a trovarci proprio lì, dove, in qualche modo, abbiamo bisogno di essere.


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